Ritratto di giovane uomo con veste da camera e berretto

L’opera dopo (sopra) e prima (sotto) del restauro

Autore: Salomon Adler (Danzica 1630-Milano 1709)

Data: 1670 circa

Tecnica e supporto: olio su tela

Dimensioni: 75 x 58 cm

Inventario: P 100

“398. Ritratto di un uomo con berretta bianca in testa, abito oscuro, e fettuccia rossa al traverso sulla camicia. Opera bellissima di autore fiammingo.”

Luigi Tadini, Descrizione generale dello Stabilimento dedicato alle Belle Arti in Lovere dal Conte Luigi Tadini cremasco, Milano 1828.

Non possediamo indizi che facciano luce sull’identità del protagonista del ritratto: un uomo ancora giovane dalla folta capigliatura scura, con indosso una camicia bianca e una veste da camera color vinaccia, decorata a racemi giallognoli e risvoltata in grigio-azzurro. Completa la mise un curioso copricapo a mo’ di cappuccio, anch’esso bianco, il cui carattere informale ed eccentrico invita a escludere che il personaggio sia un esponente dei ceti nobiliari. Occorre ammettere, tuttavia, che la qualifica sociale e professionale dell’uomo appare quanto mai problematica da definire, anche in considerazione del fatto che non è chiaro quale significato si debba attribuire alla banda rossa che egli esibisce trasversalmente sul petto, sopra la camicia.

La prima notizia relativa alla tela si rintraccia all’interno della Descrizione generale dello Stabilimento dedicato alle Belle Arti in Lovere dal conte Luigi Tadini cremasco, data alle stampe dal Tadini stesso nel 1828. In quella sede il dipinto è ricordato al n. 398, con l’indicazione “Ritratto di un uomo con berretta bianca in testa, abito oscuro, e fettuccia rossa al traverso sulla camicia. Opera bellissima di autore fiammingo” (Tadini 1828, p. 69, n. 398).

Riferito quindi nel 1903 al caravaggesco olandese Gerrit van Honthorst da Gustavo Frizzoni (Catalogo 1903, p. 16, n. 100) e, sulla sua scia, da Enrico Scalzi (1929, p. 60, n. 100), il ritratto fu oggetto nel corso del Novecento dell’attenzione di numerosi studiosi, che si espressero informalmente circa il suo autore, senza approdare a una soluzione condivisa. Spicca tra questi, innanzitutto, il parere del giovanissimo Roberto Longhi, che in un appunto manoscritto del 1913 recuperato da Barbara Savy (2021, p. 208) si mostrava negativo riguardo all’assegnazione a Honthorst e suggeriva un accostamento orientativo a un altro maestro caravaggesco, il fiammingo Gherard Seghers, sottolineando soprattutto, però, il carattere rembrandtiano del dipinto: “100. Gh.[erard van] Honthorst. Rit.[ratto] di un uomo con berretto bianco. Non è affatto Honthorst ma un Rembrantiano che ricorda tuttavia il naturalismo caravaggesco, forse Seghers. Ma l’illuminazione tisicoide del viso è affatto rembrantiana”.

Faranno seguito le comunicazioni al museo di Adolfo Venturi, che nel 1931 proporrà il nome del polacco Salomon Adler, di Mauro Pelliccioli (senza data), propenso ad assegnare la tela all’ungherese Jan Kupeck√Ω, di Edoardo Arslan (1949), che la interpretava come un’opera napoletana di inizio Settecento, e quindi di Cesare Brandi (1969), secondo il quale essa andava attribuita al partenopeo seicentesco Micco Spadaro (Domenico Gargiulo).

Nel redigere il succinto catalogo della Pinacoteca Tadini del 1969, Gino Angelico Scalzi optava per la soluzione prospettata da Arslan e assegnava il dipinto alla scuola napoletana del Settecento, ipotizzando che l’effigiato fosse riconoscibile in Masaniello (Scalzi 1969, s.p., sala XI, n. 100), tutte indicazioni riportate in un cartellino ancora oggi incollato sul retro del telaio. Nel successivo catalogo del 1992 lo stesso Scalzi riproporrà la classificazione del ritratto come “Ignoto di scuola napoletana del Settecento”, identificando però più prudentemente il personaggio in un “popolano” (Scalzi 1992, p. 44, n. 100).

Senza conoscere l’opinione espressa nel 1931 da Venturi, in tempi più recenti, infine, Paolo Vanoli ha riproposto oralmente il nome di Salomon Adler, trovando il consenso di Filippo Maria Ferro e di Barbara Savy.

Dal momento che questa indicazione attributiva appare, come si vedrà, del tutto convincente, conviene brevemente tratteggiare il profilo dell’artista polacco, a lungo attivo in Italia settentrionale tra Sei e Settecento, la cui vicenda non è mai stata ripercorsa in modo sistematico negli studi moderni, se si fa eccezione per l’ottima tesi di laurea – per sua natura difficilmente accessibile – di Valentina Pasolini (V. Pasolini, Salomon Adler. Un pittore di Danzica in Nord Italia, tesi di laurea, Università degli Studi di Milano, relatore E. Riccomini, a.a. 2000-2001).

Nato nel 1630 a Danzica, Adler trovò una decisiva fonte di ispirazione per la propria formazione nel concittadino Daniel Schultz (G. Ewald, Ein unbekanntes Bildnis von Salomon Adler, in ‘Anzeiger des Germanischen Nationalmuseums’, Norimberga 1964, pp. 99-103), ritrattista di notevolissimo piglio, fortemente influenzato dai modelli olandesi e in particolare dalla cultura rembrandtiana. Nuove notizie sulla vicenda giovanile del pittore sono emerse da un importante ritrovamento archivistico di Licia Carubelli, relativo ad una memoria autobiografica dettata dall’artista il 20 aprile 1666, allorché risiedeva da sette mesi a Crema (L. Carubelli, Salomon Adler a Crema, in ‘Arte Lombarda’, n. 149, 2007, 1, pp. 80-82). Nel documento Adler dichiara di aver lasciato la Polonia da quindici anni, dunque intorno al 1651, di aver viaggiato successivamente in luoghi imprecisati per due anni e qualche mese, e quindi di essere approdato a Venezia dodici anni prima, intorno cioè al 1654. Il pittore dichiara infine di essersi a trasferito a Crema sul finire del 1665, al seguito del podestà veneziano Agostino Da Riva, effettivamente chiamato a reggere la cittadina il 1 ottobre 1665.

Rilasciata in vista dell’imminente sposalizio con Isabella Balis Crema e finalizzata a certificare che Salomon non avesse contratto in precedenza altre unioni matrimoniali, l’attestazione autobiografica appare complessivamente attendibile. Tanto più che la prolungata permanenza del pittore a Venezia appare confermata dalle prerogative stilistiche di alcune sue opere, segnate, come già era apparso chiaro alla storiografia, da una precisa sintonia con il linguaggio di Sebastiano Bombelli, ritrattista attivo in Laguna a partire dagli anni sessanta del Seicento.

Quanto invece all’itinerario di Salomon negli anni che seguono i fatti appena rievocati, tutto concorre a ritenere che almeno dal 1670-1671 fino alla morte, nel 1709, il pittore risiedesse continuativamente a Milano, città nella quale incontrò un notevole successo come ritrattista (F. Frangi, in Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, Cinisello Balsamo 1999, pp. 276-278), ottenendo in particolare i favori della famiglia Borromeo. Sarà proprio a Milano, all’aprirsi del Settecento, che l’artista accoglierà per qualche tempo nel suo studio, com’è noto, il bergamasco Vittore Ghislandi, Fra’ Galgario, desideroso di perfezionarsi ulteriormente dopo il lungo soggiorno veneziano dell’ultimo quarto del Seicento, al fianco proprio di Bombelli.

Il riferimento all’Adler del dipinto della Tadini trova ragione, innanzitutto, nelle prerogative del registro chiaroscurale, scandito dal fiotto di luce serale che colpisce intensamente il volto e il copricapo bianco del protagonista e che poi digrada come un alone nelle zone circostanti, in un raffinato gioco di penombre e dissolvenze che fanno delicatamente immergere la figura nei toni spenti del fondo. Si tratta di una regia luministica di ascendenza rembrandtiana che connota molti dipinti del pittore, specie quelli di formato simile al nostro, come l’Autoritratto con cappello all’orientale del Museo Bardini a Firenze (V. Pasolini, in Fra’ Galgario. Le seduzioni del ritratto nel ‘700 europeo, catalogo della mostra [Bergamo, Accademia Carrara] a cura di F. Rossi, Milano 2003, p. 156, n. IV.1) o il notevole Ritratto di giovane con turbante, anticamente nella collezione Lupi a Bergamo (V. Bernardi, Il pittore Fra Vittore Ghislandi da Galgario, Bergamo 1910, pp. 19, 21, con l’erronea attribuzione a Fra’ Galgario).

Riscontri concordi sono poi offerti dai caratteri più specifici del trattamento pittorico. Mi riferisco ad esempio alla resa sciolta, con pennellate fluide e pastose, del copricapo dell’uomo, testimonianza di un virtuosismo esecutivo che si ritrova identico nell’analogo dettaglio dell’Autoritratto del Museo Bardini appena ricordato. Per non dire della stesura a velature liquide della veste da camera, risolta con una sensibilità coloristica ed effetti di trasparenza che non è difficile rintracciare nelle migliori opere del maestro, a partire dal Ritratto di Isabella von Volkenstein e dal Ritratto di gentildonna con servo moro e cane restituiti recentemente all’Adler da chi scrive (Genova, Cambi Casa d’Aste, 14-11-2018, lotto 53; Milano, Il Ponte Casa d’Aste, 9-6-2020, lotto 179).

Non v’è dubbio, peraltro, che l’elemento in grado già di primo acchito di rivelare la mano dell’artista polacco sia da individuare nella curiosa espressione dell’effigiato, fissata in un sorriso ammiccante e quasi forzato, che gonfia le gote del giovane e ne inarca leggermente le labbra. Si tratta infatti di una singolarissima modalità di presentazione, volta ad animare e a rendere più comunicativo il volto, che l’Adler adotta in altri dipinti, tra i quali può essere utile ricordare il Ritratto di Giovanni Carlo Pirovano, della collezione di Adolfo Nobili (V. Pasolini, in Fra’ Galgario…cit., 2003, p. 161, n. IV.4), ugualmente immortalato con quella attitudine bonaria e un poco sorniona con cui emerge dall’ombra il nostro protagonista.

Quanto infine alla datazione della tela, problema sempre spinoso nel catalogo di Adler, ritengo che la scelta di collocare la figura contro un fondo completamente scuro e il carattere contenuto del partito decorativo e coloristico depongano a favore di una collocazione in anni ancora piuttosto precoci della storia a noi nota del pittore, in prossimità circa del 1670. Un frangente cronologico che appare contiguo a quello dell’accertata presenza del pittore a Crema e dunque invita e non escludere l’ipotesi che l’approdo nella collezione del cremasco Tadini trovi ragione proprio nell’esecuzione del dipinto durante il soggiorno di Salomon nella cittadina lombarda, a quel tempo veneziana. Va però detto che i rapporti dell’Adler con il contesto cremasco si protrassero anche negli anni in cui l’artista era ormai certamente a Milano, come documenta la coppia di tele, riferibile al 1690 circa, con un Autoritratto e un Busto di anziana, attestata nel 1723 nella collezione di Nicolò Bondenti a Crema e tuttora conservata nel locale palazzo Terni de Gregory (W. Terni de Gregory, The mistery painter “Salomon”, in ‘The Connoisseur’, LXXXV, 1930, pp. 174-176).

Francesco Frangi

 

Il restauro condotto da Roberta Grazioli, è stato sostenuto da Marsilio Arte

Il restauro si avvale delle indagini diagnostiche condotte dal Laboratorio Diagnostico per i Beni Culturali, Alma Mater Studiorum- Università di Bologna Dipartimento di Beni Culturali, Campus di Ravenna.

 


Per saperne di più:

Catalogo della Galleria Tadini in Lovere, Lovere 1903, p. 16 n. 100

E. Scalzi, Accademia di Belle Arti Tadini. Catalogo dei quadri esistenti nella Pinacoteca con note illustrative, Lovere 1929, p. 60 n. 100

G. A. Scalzi, Guida alla Galleria Tadini, 2 volumi, Lovere 1992., II, p. 44 n. 100

L. Carubelli, Salomon Adler a Crema, in “Arte Lombarda”, 149, 2007, 1, pp. 80-82

F. Frangi, in Pittura a Milano dal Seicento al Neoclassicismo, a cura di M. Gregori, Milano 1999, pp. 276-278

V. Pasolini, Il ritratto in Lombardia da Moroni a Ceruti, catalogo della mostra (Varese, Castello di Masnago, 21 aprile-14 luglio 2002), a cura di F. Frangi, A. Morandotti, Milano 2002, pp. 234-236

B.M. Savy, Per la fortuna critica dell’Accademia Tadini: gli appunti di Roberto Longhi. Introduzione, Trascrizione e note critiche in M. Albertario, B.M. Savy, Il giovane Paris/Il giovane Longhi, con contributi di P. Aiello, V. Gheroldi (Quaderni dell’Accademia Tadini 5), Milano 2021, pp. 163-237, p. 208

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