Si tratta con tutta probabilità di una tavoletta ricavata dalla fronte di un cofano nuziale, che in origine doveva avere una struttura simile a quella del pannello con Storie di Atalanta della Galleria Nazionale di Praga, inv. O 710 (cm 55 x 187), decorato da due scene isolate: I. Le Parche predicono il destino di Meleagro e preparativi per la caccia al cinghiale calidonio; II. La caccia al cinghiale calidonio, ciascuna cm 22,5 x 71,5.
La vicenda raffigurata è tratta dalla Naturalis Historia di Plinio (XXVIII, 12) e ripresa nei Factorum et Dictorum Memorabilium di Valerio Massimo (VIII, I, 5, absol.): “La purezza della vergine vestale Tuccia, oscurata da una nube d’infamia dovuta all’accusa d’incesto, emerse per un provvidenziale aiuto dello stesso genere: essa, consapevole della sua innocenza, osò sperare di salvarsi ricorrendo ad una prova rischiosa ed incerta. Afferrato, difatti, un crivello, ‘O Vesta’, disse, ‘se ho sempre pure accostato le mie mani ai tuoi sacri oggetti, fa’ che con questo io attinga acqua dal Tevere e la porti fino al tuo tempio’. Di fronte al voto della sacerdotessa, pronunziato con tanto sicura temerarietà, la stessa natura contravvenne alle proprie leggi”. Lo stesso episodio è raffigurato anche in un clipeo del museo Poldi Pezzoli di Milano, dipinto da Bartolomeo Montagna inv. 1652/676 (Natale 1982, pp. 122-123, cat. 115) e inserito assieme a un secondo clipeo con Duilio e Bilia in un mobile assai rimaneggiato con lo stemma della famiglia Buri, entrambi i dipinti pendant di due tondi dell’Ashmolean Museum di Oxford raffiguranti il Matrimonio di Antioco e Stratonice e la Vestale Claudia (inv. A 722, A 723).
L’ordalia cui volle sottoporsi la vestale Tuccia è ambientata entro un loggiato aperto su una piazza urbica, al centro della quale tre soldati, dopo aver acceso il fuoco, attendono l’esito della prova. Sulla sinistra, a delimitare questo proscenio, uno squarcio di campagna con un castello e una torre. Questa dimensione cittadina che, come mi fa notare Sara Menato, giustifica la vecchia attribuzione a Carpaccio, ricorda la veronese piazza dei Signori, utilizzata più volte da Nicola Giolfino quale fondale di alcuni suoi dipinti, come il Muzio Scevola tiene la mano nel braciere al cospetto di Porsenna, già Sotheby’s, Londra, 14 febbraio 1968, lot. 53, e la predella con Storie di santa Barbara del Museo di Castelvecchio a Verona, inv. 937-1B1577, 938-1B1577.
La ragionevolissima attribuzione a Nicola Giolfino è stata avanzata per la prima volta da Bernard Berenson (1932, ed. cit. 1936, p. 199), che con le sue liste ha avuto in generale il merito di dare per primo una fisionomia sicura all’attività artistica del pittore veronese, in seguito approfondita e precisata da Marina Repetto Contaldo in numerosi contributi.
Nonostante la bella veste rossa, che seguendo il moto impetuoso di Tuccia aderisce alle sue gambe, mettendone in evidenza l’anatomia, e le raffinate ombre portate del colonnato sullo sfondo, non si arriva tuttavia a individuare la mano del maestro veronese nell’esecuzione dell’opera. Manca qui il punto distintivo della sua arte, ovvero quell’estro e quella bizzarria al limite del caricaturale, ispirata nel secondo decennio del Cinquecento agli esempi degli eccentrici padani Lorenzo Lotto e Amico Aspertini, e che comunque ci si aspetterebbe di ritrovare anche in un dipinto come il nostro, da datare probabilmente tra 1500 e 1510. Le figure rigide e la tavolozza assai semplice, giocata sull’alternanza dei gialli e dei rossi nella resa delle armature dei soldati, richiamano in tutto e per tutto la tradizione veronese della “pittura di cassone”, un fenomeno artistico tutto locale e sostanzialmente isolato nel panorama figurativo dell’Italia settentrionale. Alcune scelte nella moda, come gli elmi “a tre ciuffetti”, ricordano altre opere veronesi quali gli affreschi sulla casa di proprietà della famiglia Giolfino a Verona, presso Porta Borsari, in contrada Falsorgo, quelli di ambito moroniano staccati dal palazzo Cattaneo, ora al Museo di Castelvecchio (inv. 4658-1B461; 299-1B454), e infine l’affascinante tavola con la Magnanimità di Scipione del Walters Art Museum di Baltimora (inv. 37.1118), avvicinata da Federico Zeri (Italian paintings 1976, I, pp. 281-282, cat. 190, fig. 135) al nome di Michele da Verona (Verona, 1470 circa – 1536/1537).
Mattia Vinco