Autore: Bernardino Fusari (Crema, metà del Seicento)

Data: 1620-1630 circa

Tecnica e supporto: olio su tela

Dimensioni: 118x189 cm

Inventario: P 319, P 330

“84. Giuditta nell’atto di tagliare la testa ad Oloferne che sta sdrajato sopra un letto: la serva è avviluppata in un panno bianco e mostra la schiena. Il quadro porta la marca B. F. C dell’autore, ed apparteneva al monastero di S. Benedetto di Crema. Di scuola veneta, forse di Francesco Beccaruzzi da Conegliano.”

“94. La decollazione di S. Giovanni. Un manigoldo presenta ad una donna la testa del Santo ed essa la riceve in un bacile. Dello stesso autore, colla ugual marca, e della medesima provenienza di quello indicato al N.° 84.”

Luigi Tadini, Descrizione generale dello stabilimento dedicato alle belle arti in Lovere dal conte Luigi Tadini cremasco, Milano 1828

Due sanguinari drammi che offrono opposti esempi di uso delle arti femminili: la crudele e capricciosa Salomé, sobillata dalla madre Erodiade, chiede in premio la testa del Battista per aver danzato per Erode, e l’ottiene (secondo il Vangelo di Matteo); la coraggiosa e generosa Giuditta salva il popolo di Israele uccidendo il feroce Oloferne, generale al servizio di Nabucodonosor, di cui ha suscitato i desideri (come narra il deuterocanonico Libro di Giuditta).

Simili negli atti, ma antitetiche nella connotazione delle protagoniste, queste due affascinanti tele provengono a quanto pare dal monastero di San Benedetto a Crema, che dal 1520 appartenne ai Canonici Regolari Lateranensi e fu soppresso nel 1771. Benché negli accenti cupi e teatralmente violenti i due quadri siano tipici frutti della stagione pittorica milanese dei primi decenni del Seicento – quella che ebbe per protagonisti Cerano, Morazzone e Procaccini – non è del tutto agevole immaginarne l’originaria collocazione fra agli arredi di un monastero o di una chiesa, anche se l’ipotesi non può essere esclusa. In alternativa, si dovrà pensare al lascito di un munifico collezionista.

A dispetto degli evidenti caratteri seicenteschi e lombardo-occidentali, nell’Ottocento le tele erano attribuite al coneglianese Francesco Beccaruzzi, allievo di Cima e del Pordenone; in epoca più recente sono state assegnate al Morazzone e poi al Cerano: quest’ultimo riferimento, in virtù di somiglianze nelle tipologie, nei lividi incarnati, nei toni plumbei e in parte nella resa affilata dei panneggi, ha goduto di largo e perdurante credito. Includendole (con qualche incertezza) fra le opere giovanili del maestro, Rosci ne ha in ogni caso acutamente sottolineato i tratti di “spettacoli atroci e pur stranamente familiari, con le due eroine, del bene e del male, che sembrano assorte massaie attente al piatto di portata o a batter panni”: caratteri popolareschi con assonanze genovesi che sono in realtà estranei a Cerano e alla sua pittura sempre aristocratica, anche quando affronta le scene più umili.

Fondate riserve circa questa attribuzione sono state quindi avanzate da Frangi, che ha messo in rilievo la “minore disinvoltura nell’articolazione spaziale delle figure e una stesura pittorica meno vibrante” di quanto si osservi normalmente negli originali ceraneschi. E, in effetti, pur apparendo in entrambe indiscutibile il debito nei confronti di invenzioni del 1615-1620 circa di Cerano, non si può fare a meno di osservare come alcuni dei suoi tratti più caratterizzanti – i bagliori metallici, la capacità di imprimere alle figure forza di muscoli e sangue dall’interno – siano qui del tutto assenti.

Accantonato dunque il nome del grande pittore milanese, si sono aperte nuove piste di ricerca, non del tutto coincidenti. Alle due opere di Lovere Alpini (1997) ha infatti accostato vari dipinti che si conservano per lo più in chiese di Crema o dei dintorni e ha proposto di assegnare l’intero corpus così ricostruito al cremasco Giovanni Angelo Ferrario, artista poco conosciuto attivo nei primi decenni del Seicento. Il raffronto pare funzionare perfettamente per molte di queste opere – a partire dalla Madonna col Bambino di Ripalta Arpina, che deve essere stata eseguita immediatamente dopo gli esemplari Tadini – ma non convince proprio per le uniche due che, essendo firmate, sappiamo spettare sicuramente del Ferrario (Crema, San Bernardino e Cremona, Pinacoteca Ala Ponzone).

Un’alternativa a questa proposta nasce dalla constatazione che su due dei dipinti considerati compare il nome di “Bernardinus Fusarius”, che potrebbe essere il loro autore. Si tratterebbe di una personalità al momento sconosciuta, da ricostruire integralmente: l’ipotesi attende conferme documentarie o storiche, ma potrebbe spiegare la sigla “B.F.C.” visibile sulla Salomé con la testa del Battista (da interpretare come Bernardinus Fusarius Cremensis).

Federico Cavalieri


Per saperne di più:

C. Alpini, Giovanni Angelo Ferrario, in L’estro e la realtà. La pittura a Crema nel Seicento, catalogo della mostra (Crema, ex chiesa di San Domenico, 20 settembre 1997-11 gennaio 1998), Milano 1997, pp. 41-63

M. Rosci, Il Cerano, Milano 2000, pp. 276-278;

F. Cavalieri, Tra collaboratori, allievi, seguaci, in Il Cerano 1573 – 1632. Protagonista del Seicento lombardo, catalogo della mostra (Milano, Palazzo Reale, 24 febbraio – 05 giugno 2005) a cura di M. Rosci, Milano 2005, p. 43.

F. Cavalieri, Tra Ferrario e Fusario. Qualche riflessione sull’identità di un pittore cremasco del primo Seicento, in La Pieve di Palazzo Pignano nella storia e nell’arte, Milano 2017, pp. 139-151